Si sostiene comunemente che la caratteristica che distingue il metodo scientifico da altre forme di “narrazione” (più o meno razionali) sia costituito dalla ripetibilità dei risultati e dalla necessità che le teorie siano sostenute da evidenze fattuali.

Spesso però si confondono per “evidenze” la mera raccolta di dati, ai quali viene riconosciuta la capacità di render manifesta la verità fattuale, sol che si lasci i dati “parlare da soli” (vero e proprio retaggio di un pensiero magico, condito da un’aura di scientificità…)

Quando i dati “parlano da soli” solitamente dicono quello che gli analisti vogliono sentirsi dire

Tra i principali critici della dottrina della “Verità manifesta” possiamo annoverare Karl R. Popper, il quale sosteneva che i dati raccolti nell’ambito della ricerca scientifica sono sempre il risultato di una ipotesi di lavoro, che guida i ricercatori nella selezione dei dati ritenuti rilevanti, alla luce appunto delle teorie abbracciate dai ricercatori stessi (a prescindere dal fatto che ne siano o meno consapevoli).

Pertanto, l’idea stessa che i dati possano parlare da soli costituisce un vero e proprio ossimoro, quando non un autentico mito.

Per questo motivo Popper riteneva che l’approccio più corretto alla ricerca scientifica fosse quello volto a cercare le evidenze che potessero “falsificare” le teorie scientifiche, piuttosto che cercare dati a supporto delle idee preconcette dei ricercatori (come si sa, è sempre possibile trovare dati che confermino le proprie convinzioni, specie se si trascurano le evidenze di segno opposto…)

I dati da soli non costituiscono evidenze scientifiche

Soltanto dopo che i vari tentativi di falsificazione delle teorie non abbiano sortito gli effetti desiderati, si è autorizzati secondo Popper a dar credito alle teorie stesse e alle predizioni da esse supportate, in quanto frutto di teorie considerate “corroborate”.

Ora, che il lavoro dei ricercatori sia in concreto molto diverso dalla ricostruzione fattane da Popper, e che i ricercatori siano più interessati a raccogliere dati che confermino le proprie tesi, è un dato di fatto: tuttavia, rimane essenziale per la ricerca scientifica la necessità di mettere a confronto tra di loro le diverse ricostruzioni teoriche dei fatti, favorendo l’emersione delle ipotesi che meglio possano “reggere l’urto” delle evidenze, specie se di segno opposto rispetto alle attese.

In questo senso, la raccolta dei dati costituisce solo una parte del lavoro di ricerca, che rischia tuttavia di essere condizionata dalle “preferenze” (anche politiche) dei ricercatori.

I pregiudizi degli esperti e la polarizzazione delle preferenze

A far emergere tale tendenza da parte degli esperti, verso la polarizzazione delle posizioni di loro preferenza, sarebbero alcuni studi, condotti in tempi non sospetti, dallo psicologo forense di Yale, Dan Kahan.

In altri termini, a detta dello studioso di Yale, gli esperti risulterebbero essere più faziosi, rispetto ai cittadini comuni, proprio in virtù della loro maggiore dimestichezza professionale con i dati, che li indurrebbe ad “autoingannarsi” (in maniera più o meno consapevole) quando ci sono di mezzo implicazioni politiche di decisioni controverse.

Nello studio di Dan Kahan, dal titolo “Motivated numeracy and enlightened self-government”, si legge appunto che i soggetti con maggiori competenze matematiche e in materia di analisi dei dati conseguono risultati sostanzialmente migliori (come era lecito attendersi) rispetto ai soggetti con meno competenze, quando i dati oggetto di analisi interessano studi che non presentano implicazioni particolarmente divisive dal punto di vista delle differenti posizioni politiche.

Tuttavia, le risposte dei soggetti diventatano politicamente polarizzate (e meno accurate) quando i dati riguardano i risultati di uno studio considerato maggiormente “divisivo” dal punto di vista delle preferenze politiche (come ad es. quello sul divieto di controllo delle armi).

Contrariamente alle previsioni, tale polarizzazione non diminuisce tra i soggetti con maggiori competenze, ma aumenta, a testimonianza della tendenza da parte degli “esperti” a sfruttare la loro maggiore capacità di ragionamento quantitativo in modo selettivo per conformare la loro interpretazione dei dati, “piegandola” al risultato più coerente con le loro preferenze politiche.

La pandemia dei pregiudizi degli “esperti”

E anche la recente pandemia di Covid 19 sembra aver fatto emergere una serie di distorsioni cognitive (note come “Bias” o pregiudizi) da cui sarebbero maggiormente affetti proprio i cosiddetti “esperti”, i quali sarebbero più inclini a “forzare” i dati (in modo particolare quelli “non favorevoli”) verso le proprie posizioni pregiudiziali, rispetto ai “non addetti ai lavori”.

Queste distorsioni cognitive avrebbero dato luogo ad una vera e propria “pandemia di pregiudizi”, per riecheggiare il titolo di un noto articolo (“COVID-19: Pandemic of Cognitive Biases Impacting Human Behaviors and Decision-Making of Public Health Policies”), che si sarebbe affiancata alla pandemia da Covid-19.

L’elenco dei bias interessati dalla pandemia dei pregiudizi è particolarmente esteso, passando dal bias dell’overconfidence a quello della crescita esponenziale (particolarmente caro a molti “esperti”, o sedicenti tali, di casa nostra), amplificati dall’effetto distorsivo del bias del beneficio immediato e da quello dell’illusione del controllo.

I risultati sono purtroppo sotto gli occhi di tutti: “previsioni” altisonanti e altrettanto strampalate da parte degli esperti (buone per i titoli giornalistici di media sempre meno interessati a fare informazione, preferendo il più spendibile obiettivo dell’intrattenimento), che hanno condizionato cittadini e decisori pubblici verso scelte non sempre ottimali, e meno che mai supportate dalle “evidenze” scientifiche, a dispetto della numerosità dei dati prodotti a supporto…