C’è uno spettro che si aggira per i tribunali di tutto il mondo (e che rischia purtroppo di aggiungersi ai tanti altri che già affliggono quelli italiani): è quello della cosiddetta “giustizia algoritmica”!

Salutata dai molti (troppi!) entusiasti “a prescindere e per partito preso” di ogni innovazione tecnologica, essa viene proposta come irrinunciabile soluzione salvifica agli annosi problemi che affliggono l’italica amministrazione della giustizia.

Ma come spesso capita, non è tutto oro quel che luccica, a dispetto delle suggestioni tecnocratiche immancabilmente suggerite da paesi come la Cina (non proprio dei campioni del rispetto dei diritti civili…) e acriticamente additate ad esempio dai poco avveduti commentatori nostrani.

Basti pensare a come è stata salutata anche qui da noi la notizia dell’introduzione in Cina del cosiddetto “AI Prosecutor”, nome altisonante per indicare un improbabile “procuratore algoritmico” dalle ancora più improbabili (e fatali) capacità di giudizio (verosimilmente sommario).

Summum ius algorithmicum, summa iniuria mundana

Per parafrasare la nota locuzione latina “summum ius, summa iniuria” citata da Cicerone nel “De Officiis”, e che sta a indicare come il massimo rispetto formale del diritto rappresenti anche la massima ingiustizia in concreto, possiamo dire che essa si attaglia molto bene alla concezione della giustizia “algoritmica”.

Uno dei vantaggi attribuiti agli algoritmi, consisterebbe proprio nella loro presunta maggiore “obiettività”, se comparata a quella dei giudizi umani.

Per converso, si attribuisce ai decisori umani una maggiore tendenza alla discrezionalità, che renderebbe imprevedibile (per non dire aleatorio) l’esito finale del giudizio, per di più assoggettandolo alle idiosincrasie (e agli stati d’animo del momento) dei soggetti giudicanti.

In questo senso, i sostenitori delle “sorti magnifiche e progressive” della giustizia algoritmica, considerano pertanto indispensabile il ricorso agli algoritmi per restituire al giudizio la “credibilità” (e la insindacabilità) che esso merita, garantendo in questo modo “l’imparzialità” della pronuncia finale, prescindendo così dalle inevitabili idiosincrasie che caratterizzano le umane decisioni.

La giustizia del caso singolo e la non esplicabilità della ragione algoritmica

Scendendo dal platonico mondo delle idee situato nell’empireo dominio algoritmico, al più prosaico mondo delle cose terrene, quello che difetta agli algoritmi è proprio la capacità di giudizio, le cui lacune si manifestano in modo particolare quando si tratta di giudicare del caso singolo.

Gli algoritmi infatti sfruttano delle regolarità statistiche, e le risposte predittive che essi offrono possono spesso essere considerate corrette, ma paradossalmente anche per i motivi “sbagliati” (non essendo essi in grado di ricostruire il “senso” e il significato da attribuire a tali risposte).

L’approccio di fondo adottato dagli algoritmi è infatti basato sul metodo induttivo, e le predizioni che ne derivano sono pesantemente viziate da tale metodo euristico (predizioni che hanno la stessa affidabilità di quelle del cappone di Bertrand Russell, specie all’approssimarsi del giorno del Ringraziamento…)

Essendo per definizione la metodologia induttiva incapace di offrire giustificazioni per le scelte da essa operate (non si facciano confondere i non addetti ai lavori dalla cosiddetta “Explainable Artificial Intelligence”, che intende offrire all’operatore la capacità di ripercorrere a ritroso i passi seguiti dall’algoritmo, non certo di ricostruire l’iter “logico” che ha condotto la macchina alle decisioni…), non è per un caso che si faccia riferimento agli algoritmi (specie quelli di Machine Learning caratterizzati da reti neurali di “apprendimento profondo”) come a modelli “black-box”.

Appare immediatamente chiaro al cultore del diritto come il difetto di motivazione derivante dalla impossibilità di ricostruire attendibilmente l’iter logico della “decisione” mini alla base la validità della decisione stessa.

La capacità di giudizio, piaccia o no agli sciovinisti tecnologici, è per propria natura cosa “umana, troppo umana”, essendo radicata nella capacità di formulare scenari controfattuali, e nella possibilità empatica di immedesimarsi nell’altro, leggendone e decodificandone le intenzioni, sulla base del contesto specifico in cui ogni attore umano è chiamato a prendere le proprie decisioni, nella dimensione concreta “del qui e ora”, assumendosene le relative responsabilità.