Una volta gli italiani erano noti per essere tutti commissari tecnici della nazionale di calcio: la recente pandemia di Covid 19 li ha magicamente trasformati in epidemiologi, virologi e…esperti privacy!

Il Nobel disease che affligge medici e scienziati

Anche illustri medici e scienziati sono stati “illuminati sulla via di Damasco” e hanno reputato loro dovere esprimere pareri (poco qualificati) sull’argomento spinoso della tutela legale della riservatezza: è quello che gli anglofoni chiamano “Nobel disease” (sindrome dei premi Nobel), vale a dire la presunzione (nel senso proprio del termine) che essere competenti in un settore specifico della scienza renda automaticamente altrettanto competenti in altri settori, di cui al contrario non si ha alcuna contezza, contornando di conseguenza di un’aura di autorevolezza pareri che in realtà sono mere opinioni personali, spesso di poco o scarso pregio scientifico.

Ma più in generale, la privacy e la normativa posta a presidio della tutela della riservatezza (a cominciare dal recente regolamento europeo, noto come GDPR) sembrano essere diventati il capro espiatorio di ogni inefficienza nella gestione della pandemia…

Il tiro al piccione alla Privacy di media e benpensanti

Addirittura sembra essere diventato politicamente corretto, da parte di giornalisti e intellettuali da poltrona, il rigettare ogni (legittima) pretesa di riservatezza (non solo in ambito sanitario, ma più ancora in ambito economico, per non parlare dei costumi individuali, già da tempo “sdoganati” e immolati allo slogan “il privato è pubblico”), guardando con sospetto tutti coloro i quali osano appellarsi alla normativa posta a tutela della riservatezza (tranne poi indignarsi ipocritamente alla “scoperta” che i giornalisti sono intercettati da forze straniere…)

Non c’è sicurezza senza Data Protection, specie in ambito sanitario

In un delirio schizofrenico, tra gli stessi soggetti di cui sopra c’è poi chi grida (giustamente) allo scandalo, quando la sicurezza dei dati sanitari viene messa a repentaglio da attacchi informatici (vedi il recente attacco subito dalla Regione Lazio), senza essere neanche lontanamente sfiorati dal sospetto che Privacy (meglio sarebbe parlare di Data Protection) e Cybersecurity non siano altro che le due facce della stessa medaglia

Anche di ransomware, non solo di Covid, si rischia di perire

La triste verità è che purtoppo anche la sicurezza dei dati è di importanza vitale, specie nel momento in cui si è deciso di consegnare al digitale la propria esistenza.

Chi “vive di bits”, puó anche morire (non solo metaforicamente) di bits: già in passato abbiamo assistito a casi di decessi legati a violazioni dei sistemi informatici in cui sono archiviati e gestiti i dati sanitari di pazienti.

È notizia recente che gli ospedali registrino incrementi nel tasso di mortalità e ritardi nell’erogazione delle cure ai pazienti addebitabili specificamente ad attacchi informatici del tipo Ransomware.

Addirittura sta rapidamente diffondendosi una nuova forma di ransomware, già etichettata come “killware”, il cui obiettivo esplicito è quello di “sequestrare” digitalmente l’incolumità fisica stessa delle vittime…

Di conseguenza, la via maestra nel prevenire esiti esiziali, sta nell’incrementare la Privacy e la Data Protection dei dati personali, specie in settori sensibili come quello sanitario: eventuali “scorciatoie” in materia, giustificate all’apparenza dall’urgenza del momento (come dire “andiamo di fretta, spegnete i semafori…”), anzichè accellerare e migliorare la tutela dell’incolumità fisica dei soggetti interessati, rischiano di sortire effetti esattamente contrari.

Al contrario, in materia di Privacy e Data Protection dovremmo seguire l’esempio di Napoleone, il quale era solito ammonire “vado piano perchè ho fretta”…