Le ultime settimane hanno visto protagonisti i social media per una serie di ragioni apparentemente scorrelate tra loro, ma che in realtà sono intimamente legate alle caratteristiche strutturali di tali strumenti di comunicazione.

Intendiamo riferirci da un lato alla vicenda che ha visto il presidente Trump bannato dalle principali piattaforme social, a seguito degli eventi di Capitol Hill, e dall’altro alla prossima adozione dei nuovi termini d’uso introdotti da WhatsApp, che stanno inducendo molti utenti ad abbandonare l’omonima applicazione di messaggistica, in favore di applicazioni concorrenti.

Il velo di ipocrisia della neutralità dei social media

La vicenda di Trump ha dimostrato per l’ennesima volta l’insostenibilità della supposta neutralità delle piattaforme social rispetto ai contenuti pubblicati dagli utenti.

Al mito della neutralità dei social media negli anni passati era associato l’altro mito, quello della “democratizzazione” dei media digitali, che ha inteso interpretare manifestazioni quali le primavere arabe alla stregua di presunte evidenze dell’utilità dei social media come “megafono” dei movimenti originati “dal basso”.

La realtà si è invece dimostrata tutt’altra: al “megafono” si è progressivamente sostituito un semplice microfono, il cui volume (e quindi la capacità di raggiungere un pubblico potenziale) è regolato automaticamente dagli algoritmi che gestiscono i feed delle piattaforme social, sulla base delle policy stabilite (e modificate) unilateralmente dalle società private proprietarie delle piattaforme.

Niente di più lontano quindi dal suggestivo Hyde Park’s corner, utilizzato a sproposito come termine di paragone della presunta democratizzazione dell’accesso ai media digitali da parte degli utenti comuni.

I social media si sono dimostrati quindi per quello che sono: a dispetto dell’impiego di strumenti digitali, essi non sono sostanzialmente differenti dai tradizionali media analogici, e come questi ultimi, devono essere assoggettati alle stesse responsabilità per i contenuti pubblicati.

E non si venga a dire che la tecnologia attualmente disponibile per il controllo preventivo dei contenuti non è adeguata: tra deep learning e Content ID (tecnologia introdotta qualche anno fa da Google proprio per individuare le violazioni del copyright da parte degli utenti di YouTube) gli strumenti ci sono eccome!

Il problema vero è che il controllo preventivo dei contenuti va contro gli incentivi economici distorti che sono alla base del business model dei social media…

L’effetto di lock-in dei social media

Che le società proprietarie delle piattaforme social abbiano saputo vendere bene il proprio prodotto, sfruttando molti degli slogan mutuati dalla controcultura californiana degli anni ’60 del secolo scorso, è innegabile.

In aggiunta alla retorica SiliconVallara, hanno saputo far leva sulla più prosaica dipendenza manifestata dagli utenti verso i gadgets digitali.

Il fatto stesso che gli utenti siano disposti a lasciare la loro applicazione preferita di messaggistica, a seguito delle modifiche dei termini d’uso e della policy sulla privacy di WhatApp, viene letto da alcuni come una accresciuta consapevolezza da parte degli utenti dei propri diritti.

Vedremo in concreto quanti saranno effettivamente gli utenti disposti a lasciare WhatsApp e passare ad applicazioni concorrenti, superando l’effetto lock-in che caratterizza questo tipo di applicazioni.

Ma anche nel caso in cui gli attuali utenti WhatsApp dovessero decidere di abbandonare in massa l’applicazione in favore di applicazioni concorrenti, questo dimostrerebbe ancora una volta la dipendenza degli utenti verso i gadgets della “socialità digitale”, come appunto le app di messaggistica, a prescindere da chi le gestisce.

Parafrasando una pubblicità di qualche anno fa, “toglietemi tutto, ma non i miei gadgets digitali…”

La sindrome di Stoccolma digitale degli utenti

Secondo i sostenitori “a prescindere” delle virtù delle tecnologie digitali, il successo delle app testimonierebbe della concreta utilità delle funzionalità messe a disposizione degli utenti.

A nostro avviso, il fenomeno invece testimonia della dipendenza manifestata ormai da molti utenti verso i gadgets digitali, spesso progettati (non a caso) seguendo modelli di design che si ispirano a interfacce “addictive” come le slot machines.

Il fatto stesso che gli utenti siano pronti a prendere le difese in maniera acritica delle piattaforme social, appoggiando decisioni come appunto quella di bannare utenti “scomodi” sulla base di scelte unilaterali e insindacabili, ammantate da motivazioni “etiche” (e già solo questo dovrebbe indurre i più ad abbandonare spontanteneamente tali circuiti settari), testimonia della “cattura” da parte degli utenti, che, proprio come nel caso della sindrome di Stoccolma, finiscono col prendere le parti dei propri “sequestratori”.

In altri termini, pur di non perdere l’accesso ai social, considerati ormai irrinunciabili, essi sono disposti a tollerare qualsiasi prevaricazione da parte delle società proprietarie delle piattaforme, ormai veri monopolisti della comunicazione, mentre continuano ad essere intransigenti verso i media tradizionali, considerati acriticamente meno attendibili rispetto alle controparti digitali…